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L’arte ripudia la materia a caccia di libertà?

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    redazione-koverart
  • 1 ago 2022
  • Tempo di lettura: 3 min

"Il medium è il messaggio", ogni volta che ci si interroga sul significato dell'arte oggi, mi viene in mente questa espressione coniata da Marshall McLuhan negli anni Sessanta. Una frase che racchiude la possibile chiave di lettura di ogni epoca artistica: ogni strumento utilizzato per fare arte, per cui in definitiva comunicazione, va ben oltre il contenuto che vuole trasmettere, ha cioè effetti sulla persona a 360 gradi. Sia a livello personale che collettivo.

Un esempio su tutti, sempre stando a McLuhan fu l'invenzione della stampa a caratteri mobili che sancì definitivamente la nascita dell'uomo moderno in cui il senso predominante era la vista: nasceva una società basata soprattutto sul vedere.

Ma la stampa, come spiega già nel suo saggio del 1962 (La galassia Gutenberg) è già stata superata.. da chi? Dalla onnipotente tv e dai nuovi media: il coinvolgimento della persona è totale, non si tratta solo di leggere qualcosa (un libro) o di ascoltare (la radio), ma di essere letteralmente assorbiti dentro questo mezzo di comunicazione attivo h24.

Poi è arrivato internet ed ora, soprattutto le nuove generazioni, sono totalmente "prese" dagli strumenti della rete che letteralmente costituiscono il loro mondo. Il coinvolgimento è ancora più totale, massivo, continuativo, anche grazie al rapporto quasi simbiotico con gli smartphone.

Con il superamento della galassia Gutenberg, secondo McLuhan si entra dentro ad un nuovo tribalismo, quello globale, tutto risulta un unico grande villaggio in cui le distanze geografiche non contano più, e spesso, nemmeno la diversità di pensiero, non di rado vittima di un appiattimento operato dal pensiero dominante.

Il fenomeno della Pop Art infondo non ci racconta la stessa cosa? Immersione totale nell'arte visiva "delle cose", colori che brillano, oggetti di consumo elevati ad opera d'arte, ripetuti, rivisitati, sovradimensionati.

E' stato il trionfo del "vedere", l'attestazione della supremazia dell'organo della vista.

E poi tutto questo è stato superato, o verrebbe da dire "masticato, fagocitato", e poi messo da parte, come dopo ad un'indigestione, che certi cibi non si possono più nemmeno vedere da lontano. Dagli anni Settanta in poi l'arte ha cercato, e cerca ancora, di battere nuove strade espressive muovendosi tra performance, installazioni, video-arte. E' come se tentasse di uscire dal mondo degli oggetti, o in generale della materia, perché tutto è già stato detto, vissuto, visto, toccato.

Cercando di affrancarsi dal "già esistente" finisce per cadere nel flusso in cui tutti cadiamo, come se ci fosse una corrente che trasporta tutto con sé, una forza che smaterializza ogni cosa. Abbiamo fatto un bagno di decenni nella materia e ora la rinneghiamo, vogliamo astrarci da essa, in modi di cui forse non siamo consapevoli.

Ci pensa "L'internet delle cose", o forse sarebbe meglio dire "L'internet delle persone", "L'internet della vita": tutto diventa sempre più volatile, inafferrabile e l'arte sembra voler rispecchiare questa inconsistenza.

La digital art può essere definita come il tentativo più estremo per uscire dalle cose? Dalla materialità? Questo processo di smaterializzazione vuole andare verso cosa? Verso una maggiore libertà? Ci sta riuscendo?

Perché l'impressione è che il rinnegamento di tutto ciò che "si tocca" che sta avvenendo in ogni ambito della vita, vada più verso ad una omologazione di massa e non a favore di una maggiore espressione delle libertà individuali.

L'arte come si colloca in questo processo? Cerca di ritagliare spazi digitali in cui le identità si incontrano e si confrontano o si muove dentro ad un recinto senza saperlo?

Non c'è vera arte senza libertà o senza anelare ad essa.


Miriam Fusconi

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